I 90 ANNI DEL PARCO: STORIA E BILANCI
Se qualcuno mi chiedesse
perché mai il Parco d’Abruzzo è sorto proprio qui, in questa Valle e non
altrove, credo che la risposta la andrei a cercare nelle peculiarità del
territorio e nel conseguente, secolare, isolamento.
L’Abruzzo montano è
stato sovente rappresentato, soprattutto nel passato, mettendo in evidenza l’asprezza del clima e
del paesaggio. Ed è stata proprio questa sua orografia accidentata che, da un
lato, ha difeso le frontiere settentrionali del Regno di Napoli e, dall’altro, ha
salvato i superstiti rappresentanti della grande mammalofauna appenninica che
qui si sono rifugiati, incalzati dall’avanzare dell’uomo.
Lo stesso Sipari, nella sua Relazione, evidenzia come
siano stati proprio i cacchiti intesi
come selve aggrovigliate, gli appicchi
ovvero le pareti di roccia verticali, le
scatafosce forre e valloni
impenetrabili, le cantonere massi
erratici singoli o a banchi, residui di antiche glaciazioni, a consentire la
sopravvivenza dell’orso e del camoscio.
L’inesistenza, poi, di un sistema viario apprezzabile ha contribuito a
favorire le condizioni del suo isolamento. Infatti, nonostante la collocazione
dell’Appennino abruzzese-molisano nel cuore dei traffici peninsulari, l’attraversamento
dei suoi altopiani si è svolto, almeno fino alla seconda metà dell’800, sugli
antichi percorsi tratturali come il
Pescasseroli-Candela, il Castel di Sangro-Lucera o il Celano-Foggia. Quest’ultimo per buona parte mutuato
dalla celebre Via degli Abruzzi.
Nell’Antico Regime, per
chi proveniva da Napoli, la “civiltà” si fermava a Castel di Sangro, tant’è che
notizie di cacce all’orso, si hanno proprio in questa zona dove la corte
napoletana trovava ospitalità adeguata alle proprie esigenze. Di quell’epoca si
ricordano le frequentazioni di Alfonso II
d’Aragona duca di Calabria che, regnando suo padre Ferrante I, qui veniva per lo ayro frisco e per la caccia de li urci.
Ed è così che la montagna, con la sua marginalità, è
stata spesso l’ultimo rifugio di animali pressati dall’attività venatoria.
Sulle Alpi è capitato allo stambecco, ritenuto estinto
già all’inizio dell’Ottocento a causa di una caccia spietata per presunte
qualità magico-curative di parti del suo corpo. Il successivo rinvenimento
di una esigua popolazione, rifugiatasi nei valloni che discendono dal massiccio del Gran Paradiso, spinse il
re Carlo Felice a riservarsene la caccia, e ad emanare Regie Patenti con le
quali ne proibiva la cattura nell’intero Regno di Sardegna.
Con molta probabilità è stato proprio questo egoismo venatorio a consentire,
in questo caso come in altri, la salvezza di specie importanti della fauna
italiana, sia sulle Alpi che in Appennino.
Forse è tempo di rivedere la lettura negativa applicata, tout court, al diritto di esclusiva che
case regnanti e nobiltà locale si riservavano in materia di caccia, rivalutandone
l’involontaria funzione di tutela ante
litteram.
Ed è quello che è successo anche qui in Alto Sangro con le due riserve Savoia, la
prima dal 1873 al 1878 e l’altra dal 1900 al 1912. Queste sospensioni
dell’attività venatoria indiscriminata, unite alla pausa conseguente al I°
conflitto mondiale, sono state provvidenziali per la conservazione della grande
fauna appenninica.
Una conferma la rileviamo nella Statistica riportata
in calce alla Relazione Sipari che, seppur incompleta, presenta dati eloquenti.
Da essa si desume come nei dodici anni intercorsi tra il 1900 e la fine del 1912, in vigenza della
esclusiva di caccia dedicata a Vittorio Emanuele III, vennero censiti in tutto
cinque abbattimenti di orso. Nei dieci anni successivi, dal 1913 anno di
abolizione della riserva, al 1923 anno dell’istituzione ufficiale del Parco,
ben quarantaquattro furono gli esemplari caduti sotto i colpi dei cacciatori,
dieci nel solo 1921.
Nello stesso periodo anche il camoscio subì pesantemente
la riapertura della caccia: in un solo giorno del gennaio 1913 vennero abbattuti
quindici capi a fronte dei quarantanove registrati in ottantacinque anni di
statistica. Questo caprino era assurto alla ribalta della scienza nel 1899,
allorquando lo zoologo tedesco Oscar Neumann gli attribuiva il rango di specie
endemica dell’Abruzzo con il nome scientifico di Rupicapra ornata. Probabilmente fu proprio questa ecatombe, unita
alla sua particolarità zoologica, a sollecitare
l’emanazione del divieto di caccia avvenuta con il regio decreto del 9 gennaio
1913.
Invece per l’orso si dovrà attendere il 1939 quando la
cosiddetta legge Acerbo, testo unico in materia venatoria, ne sancirà un
analogo e definitivo divieto.
Infatti, a ben
guardare, nei cinquant’anni intercorsi tra la prima riserva a Vittorio Emanuele
II e la legge di tutela, il pacifico plantigrado è stato sovente considerato
come una preziosa risorsa della valle da offrire in pegno al potente di turno.
Ne sono testimonianza le pelli inviate a regnanti e notabili, i diritti di
caccia ceduti ai Savoia e, infine, le
battute in onore di principi reali o di alte gerarchie, del Partito nazionale
fascista e della Milizia nazionale forestale.
All’orso oltretutto mancava quel carattere di esclusività
che gli venne in seguito conferito dagli studi di Giuseppe Altobello. Questo
medico e naturalista molisano, sulla base delle sue osservazioni fondate su
caratteristiche morfologiche in particolare craniometriche, gli attribuiva, nel
1921, il rango di sottospecie tipica dell’Appennino centro-meridionale chiamandolo
Ursus arctos marsicanus.
Anche al lupo, l’altro co-protagonista insieme
all’orso ed al camoscio delle vicende faunistiche del Parco in quegli anni,
venne attribuito lo stesso status di sottospecie con il nome di Canis lupus italicus Altobello 1921.
Ma il declino della transumanza, in un quadro di
generale impoverimento della montagna abruzzese, iniziato già con la
censuazione del Tavoliere nel 1806 e la conseguente trasformazione
dell’allevamento ovino da industria ad economia di sussistenza, fecero del lupo
un comodo capro espiatorio.
Sipari, che ben conosceva gli umori di quella società
pastorale, intravide subito la possibilità di acquisire consensi puntando
l’indice accusatore sul predatore.
Oltre ai danni inferti agli armenti, al lupo venne
addossata la responsabilità della mancata crescita delle popolazioni di camoscio,
capriolo e, perfino, di orso. Fu fatto oggetto di una feroce campagna di
sterminio incentivata con la corresponsione di premi, al punto che il primo
atto del Direttorio Provvisorio fu l’istituzione, nel marzo del 1922, di un
premio di 150 lire per ogni esemplare adulto abbattuto.
Avvenne così che dal 1° giugno 1923 al 30 novembre del
1932 furono uccisi 209 lupi di cui 84 maschi, 82 femmine e 43 cuccioli.
Lo sterminio del lupo e la sostituzione della
selezione naturale con quella umana, costituirono le linee guida della politica
faunistica della nascente Istituzione.
La salvezza dell’orso e del camoscio quindi mobilitarono
il mondo scientifico dell’epoca, con un movimento di opinione di cui Sipari si
avvalse con abilità per cogliere il risultato da lui lungamente inseguito:
l’istituzione del Parco nazionale d’Abruzzo ed il conseguente sviluppo della
Valle.
Sviluppo che, nella sua visione, era più strettamente
collegato al turismo che non alla salvaguardia della fauna e della flora, come da
lui stesso ammesso in più di una corrispondenza.
Ma è altrettanto evidente che senza Sipari, la sua
autorevolezza, la sua conoscenza di uomini e vicende della Valle, la sua
abilità politica e la sua grande determinazione, non sarebbero certo state
sufficienti l’orografia accidentata ed il secolare isolamento della Valle, per consegnarci
oggi quel patrimonio di natura e cultura rappresentato dal Parco d’Abruzzo.
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