domenica 6 maggio 2012

I 90 ANNI DEL PARCO D'ABRUZZO LAZIO E MOLISE.

Campobasso 6 maggio 2012


I 90 ANNI DEL PARCO: STORIA E BILANCI



Se qualcuno mi chiedesse perché mai il Parco d’Abruzzo è sorto proprio qui, in questa Valle e non altrove, credo che la risposta la andrei a cercare nelle peculiarità del territorio e nel conseguente, secolare, isolamento.
L’Abruzzo montano è stato sovente rappresentato, soprattutto nel passato,  mettendo in evidenza l’asprezza del clima e del paesaggio. Ed è stata proprio questa sua orografia accidentata che, da un lato, ha difeso le frontiere settentrionali del Regno di Napoli e, dall’altro, ha salvato i superstiti rappresentanti della grande mammalofauna appenninica che qui si sono rifugiati, incalzati dall’avanzare dell’uomo.
Lo stesso Sipari, nella sua Relazione, evidenzia come siano stati proprio i cacchiti intesi come selve aggrovigliate, gli appicchi ovvero le pareti di roccia verticali,  le scatafosce forre e valloni impenetrabili, le cantonere massi erratici singoli o a banchi, residui di antiche glaciazioni, a consentire la sopravvivenza dell’orso e del camoscio.
L’inesistenza, poi, di un sistema viario apprezzabile ha contribuito a favorire le condizioni del suo isolamento. Infatti, nonostante la collocazione dell’Appennino abruzzese-molisano nel cuore dei traffici peninsulari, l’attraversamento dei suoi altopiani si è svolto, almeno fino alla seconda metà dell’800, sugli antichi percorsi tratturali  come il Pescasseroli-Candela, il Castel di Sangro-Lucera o il Celano-Foggia. Quest’ultimo per buona parte mutuato dalla celebre Via degli Abruzzi.
Nell’Antico Regime, per chi proveniva da Napoli, la “civiltà” si fermava a Castel di Sangro, tant’è che notizie di cacce all’orso, si hanno proprio in questa zona dove la corte napoletana trovava ospitalità adeguata alle proprie esigenze. Di quell’epoca si ricordano le frequentazioni di Alfonso II d’Aragona duca di Calabria che, regnando suo padre Ferrante I, qui veniva per lo ayro frisco e per la caccia de li urci.
Ed è così che la montagna, con la sua marginalità, è stata spesso l’ultimo rifugio di animali pressati dall’attività venatoria.
Sulle Alpi è capitato allo stambecco, ritenuto estinto già all’inizio dell’Ottocento a causa di una caccia spietata per presunte qualità magico-curative di parti del suo corpo. Il successivo rinvenimento di una esigua popolazione, rifugiatasi nei valloni che discendono dal massiccio del Gran Paradiso, spinse il re Carlo Felice a riservarsene la caccia, e ad emanare Regie Patenti con le quali ne proibiva la cattura nell’intero Regno di Sardegna.
Con molta probabilità è stato proprio questo egoismo venatorio a consentire, in questo caso come in altri, la salvezza di specie importanti della fauna italiana, sia sulle Alpi che in Appennino.
Forse è tempo di rivedere la lettura negativa applicata, tout court, al diritto di esclusiva che case regnanti e nobiltà locale si riservavano in materia di caccia, rivalutandone l’involontaria funzione di tutela ante litteram.
Ed è quello che è successo anche qui  in Alto Sangro con le due riserve Savoia, la prima dal 1873 al 1878 e l’altra dal 1900 al 1912. Queste sospensioni dell’attività venatoria indiscriminata, unite alla pausa conseguente al I° conflitto mondiale, sono state provvidenziali per la conservazione della grande fauna appenninica.
Una conferma la rileviamo nella Statistica riportata in calce alla Relazione Sipari che, seppur incompleta, presenta dati eloquenti. Da essa si desume come nei dodici anni intercorsi tra il 1900 e la fine del 1912, in vigenza della esclusiva di caccia dedicata a Vittorio Emanuele III, vennero censiti in tutto cinque abbattimenti di orso. Nei dieci anni successivi, dal 1913 anno di abolizione della riserva, al 1923 anno dell’istituzione ufficiale del Parco, ben quarantaquattro furono gli esemplari caduti sotto i colpi dei cacciatori, dieci nel solo 1921.
Nello stesso periodo anche il camoscio subì pesantemente la riapertura della caccia: in un solo giorno del gennaio 1913 vennero abbattuti quindici capi a fronte dei quarantanove registrati in ottantacinque anni di statistica. Questo caprino era assurto alla ribalta della scienza nel 1899, allorquando lo zoologo tedesco Oscar Neumann gli attribuiva il rango di specie endemica dell’Abruzzo con il nome scientifico di Rupicapra ornata. Probabilmente fu proprio questa ecatombe, unita alla sua particolarità zoologica,  a sollecitare l’emanazione del divieto di caccia avvenuta con il regio decreto del 9 gennaio 1913.
Invece per l’orso si dovrà attendere il 1939 quando la cosiddetta legge Acerbo, testo unico in materia venatoria, ne sancirà un analogo e definitivo divieto.
Infatti, a  ben guardare, nei cinquant’anni intercorsi tra la prima riserva a Vittorio Emanuele II e la legge di tutela, il pacifico plantigrado è stato sovente considerato come una preziosa risorsa della valle da offrire in pegno al potente di turno. Ne sono testimonianza le pelli inviate a regnanti e notabili, i diritti di caccia ceduti ai Savoia e, infine,  le battute in onore di principi reali o di alte gerarchie, del Partito nazionale fascista e della Milizia nazionale forestale.
All’orso oltretutto mancava quel carattere di esclusività che gli venne in seguito conferito dagli studi di Giuseppe Altobello. Questo medico e naturalista molisano, sulla base delle sue osservazioni fondate su caratteristiche morfologiche in particolare craniometriche, gli attribuiva, nel 1921, il rango di sottospecie tipica dell’Appennino centro-meridionale chiamandolo Ursus arctos marsicanus.
Anche al lupo, l’altro co-protagonista insieme all’orso ed al camoscio delle vicende faunistiche del Parco in quegli anni, venne attribuito lo stesso status di sottospecie con il nome di Canis lupus italicus Altobello 1921.
Ma il declino della transumanza, in un quadro di generale impoverimento della montagna abruzzese, iniziato già con la censuazione del Tavoliere nel 1806 e la conseguente trasformazione dell’allevamento ovino da industria ad economia di sussistenza, fecero del lupo un comodo capro espiatorio.
Sipari, che ben conosceva gli umori di quella società pastorale, intravide subito la possibilità di acquisire consensi puntando l’indice accusatore sul predatore.
Oltre ai danni inferti agli armenti, al lupo venne addossata la responsabilità della mancata crescita delle popolazioni di camoscio, capriolo e, perfino, di orso. Fu fatto oggetto di una feroce campagna di sterminio incentivata con la corresponsione di premi, al punto che il primo atto del Direttorio Provvisorio fu l’istituzione, nel marzo del 1922, di un premio di 150 lire per ogni esemplare adulto abbattuto.
Avvenne così che dal 1° giugno 1923 al 30 novembre del 1932 furono uccisi 209 lupi di cui 84 maschi, 82 femmine e 43 cuccioli.
Lo sterminio del lupo e la sostituzione della selezione naturale con quella umana, costituirono le linee guida della politica faunistica della nascente Istituzione.
La salvezza dell’orso e del camoscio quindi mobilitarono il mondo scientifico dell’epoca, con un movimento di opinione di cui Sipari si avvalse con abilità per cogliere il risultato da lui lungamente inseguito: l’istituzione del Parco nazionale d’Abruzzo ed il conseguente sviluppo della Valle.
Sviluppo che, nella sua visione, era più strettamente collegato al turismo che non alla salvaguardia della fauna e della flora, come da lui stesso ammesso in più di una corrispondenza.
Ma è altrettanto evidente che senza Sipari, la sua autorevolezza, la sua conoscenza di uomini e vicende della Valle, la sua abilità politica e la sua grande determinazione, non sarebbero certo state sufficienti l’orografia accidentata ed il secolare isolamento della Valle, per consegnarci oggi quel patrimonio di natura e cultura rappresentato dal Parco d’Abruzzo.

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