Prolusione di S.Em. Card. Angelo Bagnasco
Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Torino, 12-15 settembre 2013 Giovedì 12 settembre 2013
1. In ascolto dell’uomo e della donna di oggi
“Da
ogni parte ci esortavano a salvare il pianeta. Non si doveva, con la stessa
urgenza, venire in soccorso all’umano? Se l’aria doveva restare pura, se l’erba
doveva restare verde, non bisognava anche che il mondo degli umani restasse
abitabile? Che cosa si faceva della terra degli uomini?”[1].
A questa domanda intende rispondere in un suo recente saggio, la psichiatra
Catherine Ternynck, che guida il lettore a decifrare cosa stia accadendo alla
nostra generazione, soggetta a sempre più frequenti crisi depressive e a
inedite forme di disagio sociale. Si tratta del suolo umano che si è
impoverito, si è svuotato del suo humus
di relazioni, legami, responsabilità e così è divenuto friabile ed
inconsistente. Al punto che l’uomo stesso, su questo terreno incerto, finisce
per diventare ‘di sabbia’, una figura fluida, impastata di contraddizioni e con
una caratteristica evidente: la sensazione di stanchezza. È un uomo ‘dalla
testa pesante’ che fatica a portare avanti la sua vita, dubita del tragitto e
del senso, chiedendo al contempo riconoscimento e rassicurazione. È schiacciato
dall’urgenza di farsi da sé in una competizione continua, e nello stesso tempo
scopre che gli manca la terra sotto i piedi. Il grande sogno
dell’individualismo, che ha segnato di sé l’uomo moderno, lo ha condotto nella
post-modernità ad una imbarazzante scoperta: il grande sogno non ha tenuto!
Anche
noi, in questi giorni, vorremmo insieme provare ad ascoltare l’uomo e la donna
di oggi, senza pregiudizi o filtri ideologici, ma assecondando la vocazione
della Chiesa che ha come suo primo compito quello di ascoltare Dio e
inseparabilmente il mondo, soprattutto le sue sofferenze, disagi e fatiche, le
sue paure. L’obiettivo non è di difendere una posizione, di ribadire un
principio, ma di portare a credenti e non credenti il contributo di
umanizzazione che la luce della fede suscita innanzitutto nell’ambito della
famiglia, come ci ha ricordato di recente Papa Francesco[2].
Tra i luoghi deteriorati dall’individualismo, laddove sono custodite le
fondamenta dell’umanità, c’è la famiglia, ancor prima del sociale e del
politico. È diventato perfino uno slogan dire
che essa è in crisi, e indicatori severi non mancano al riguardo. La famiglia
tuttavia è pure l’antidoto alla stessa crisi, l’unica alternativa praticabile
ad una esasperazione dell’individuo, la cui pesantezza è diventata
insostenibile sotto l’imperativo di un’autonomia rivelatasi ben presto ingenua
e cinica allo stesso tempo.
Interrogandoci
sulla famiglia, con l’apporto di competenze qualificate e plurali, continua e
si sviluppa quella correlazione tra Vangelo e società, che nel nostro Paese
vanta una esperienza più che secolare, e che oggi si apre qui a Torino con la
47ª Settimana Sociale dei Cattolici. Come rilevava la
Nota CEI del 1988 infatti: “Le Settimane
Sociali, (…) saranno espressione della diaconia della Chiesa italiana al Paese,
che vive un complesso momento storico di trasformazione per certi versi ricco e
positivo e per altri incerto e problematico. Una diaconia culturale che si
eserciterà con un costruttivo senso del dialogo e del confronto nel pieno
rispetto della verità e della carità cristiana”[3].
Il nostro vuol essere, dunque, un servizio al dibattito culturale in corso nel
nostro Paese, e per questo un confronto serio e rigoroso, aperto al contributo
di tutti gli uomini pensosi, capaci di lasciarsi interrogare dalla famiglia che
non è una ‘invenzione stagionale’[4], e come tale soggetta a
cicliche ridefinizioni. Senza dimenticare per altro che essa richiede di essere
sempre di nuovo compresa nella sua architettura essenziale.
La riflessione
che stiamo per affrontare, si snoderà attraverso un primo tornante che cerca di
mettere a fuoco un elemento specifico del familiare nella relazione tra generi
diversi e tra diverse generazioni, con le implicazioni che ne derivano. La
roccia della differenza è fondamentale per ritessere l’umano che rischia
diversamente di essere polverizzato in un indistinto egualitarismo che cancella
la differenza sessuale e quella generazionale, eliminando così la possibilità
di essere padre e madre, figlio e figlia. In un secondo momento si cercherà di
ricavare le conseguenze che sul piano sociale ed economico debbono essere
tratte al più presto, perché la famiglia non resti imbrigliata in immagini
stereotipate o in utopiche fughe in avanti. In conclusione spero sarà più
chiaro che la famiglia è una risorsa e non un ostacolo alla modernizzazione,
anzi la speranza e, dunque, il futuro.
La domanda che
resta alla fine non è quella che risuona frequentemente: “Che mondo lasceremo
ai nostri figli?”; ma una più inquietante: “A quali figli lasceremo il mondo?”.
2. La relazione tra generi diversi e tra
diverse generazioni
La
differenza dei sessi e la differenza delle generazioni costituiscono la
travatura di ogni essere umano, l’espressione visibile e certa del suo essere
relazione, due orientamenti fondamentali che non possono essere confusi senza che
ne segua una disorganizzazione globale della persona e della società. Il fatto
è che, nel volgere di qualche decennio, una tale persuasione ha perso di
evidenza ed è diventata un problema. Come siamo arrivati a questo punto? E
soprattutto chi ha paura della differenza? Bisogna prendere coscienza di almeno
due processi culturali. Il primo è il rilievo sociale della sessualità che ha
prodotto paradossalmente l’eclissi dell’identità sessuata; il secondo è la
caduta verticale del dialogo tra le generazioni che sembra portare al congedo
dalla possibilità stessa di educare.
Quanto al
primo processo, a partire dagli anni ’70 si fa strada l’idea che il sesso non
sia semplicemente un dato biologico, ma che comporti una elaborazione culturale
in funzione della ripartizione dei ruoli nella società di appartenenza. Questo
è quanto in un primo tempo la gender
theory sostiene. Infatti, a partire dalla celebre espressione di Simone de
Beauvoir – “Non si nasce donna, lo si diventa” – si comincia a distinguere il
sesso dal genere, come due realtà non sovrapponibili. Sulla prima, biologica,
storicamente si sarebbe innestata la seconda, con una crescente valenza
culturale e sociale e quindi politica. Infatti, la categoria “genere” nel tempo
è venuta a significare rappresentazioni e ruoli che sono stati considerati
‘naturali’, e che invece, la critica femminista prima e la riflessione
culturale dopo, ritengono sovrapposizioni per nulla naturali, ma piuttosto
funzionali a posizioni di potere maschile. Basta pensare alla posizioni
culturale e sociale della donna in alcune epoche o aree geografiche, dove la
sua libertà, il diritto all’istruzione, il desiderio di contribuire alla vita
sociale, non sono state o non sono ancora adeguatamente riconosciuti. Questo
sforzo di comprensione e critica è non solo legittimo, ma anche opportuno.
Semmai, oggi, bisognerebbe smascherare talune immagini di apparente liberazione
della donna che, in realtà, ripropongono nuove e più sottili forme di
subordinazione al riconoscimento maschile.
La messa in
questione del ‘dato per scontato’ ha prodotto esiti diversi. Da una parte, in
termini generali, una maggiore consapevolezza della propria sessualità, e
dall’altra l’estremizzazione della propria libertà, quasi scatenando una specie
di sospetto e di pregiudiziale iconoclasta verso tutto ciò che socialmente
sembrava essere legato alla differenza sessuale. La categoria di “genere”
divenne così sempre più autonoma rispetto alla categorie di “sesso biologico”,
fino a separarsi e a contrapporsi rivendicando un’autonomia assoluta,
dichiarando la fine del “dato naturale” e instaurando il primato del
“culturale”, della cifra “storica”, della preferenza soggettiva, individuale.
Volendo eliminare dalla dimensione sessuale le sovrastrutture socio-culturali
espresse con la categoria di “genere”, si è giunti a negare anche il dato di
partenza: la persona nasce sessuata. Come appare, il concetto ha così subito
una radicale mutazione fino ad esprimere “l’autopercezione individuale”: come
il soggetto si percepisce, egli è. Si è venuti a decostruire la dimensione
sessuale fino ad adeguarla alla liquidità sociale (Z. Bauman). Dobbiamo uscire
da quello che Havel efficacemente definiva ‘l’esilio del privato’, e avere
l’umiltà e il coraggio di riconoscere che le nostre scelte non sono solo
‘affare nostro’, ma che contribuiscono a contenere o aggravare i problemi
dell’ambiente fisico, a costruire o disgregare il mondo sociale. Restringere
l’orizzonte su ciò che ci va di fare, che ci fa ‘stare bene’, senza altre
considerazioni (il senso, il bene di altri, la gratitudine per ciò che si è
ricevuto, le generazioni presenti e future…) significa mortificare, non
liberare, la nostra umanità.
Tale
capovolgimento dall’oggettivo al soggettivo, dalla natura alla cultura, non è
limitato alla dimensione della sessualità, ma rientra in una visione ben più
ampia che tocca la stessa visione antropologica: la persona stessa – nella sua
complessità – è considerata come risultato mutevole della storia, anziché un
dato oggettivo e imprescindibile da cui partire e da tenere come criterio che
guida lo sviluppo personale e sociale.
In uno dei
saggi che hanno fatto opinione si legge, non senza sorpresa: “Teorizzando che
il genere è una costruzione sociale del tutto indipendente dal sesso, il genere
stesso diventa un artificio libero da vincoli. Di conseguenza, uomo e maschile
potrebbero riferirsi sia a un corpo femminile sia a uno maschile; donna e
femminile, sia a un corpo maschile sia a uno femminile”[5].
Questa
prospettiva fortemente reattiva alla tradizione e insofferente a qualunque
vincolo per l’espansione illimitata dell’io, presenta gli stessi limiti
dell’individualismo assoluto, che già da tempo si sta dimostrando una
prospettiva antropologica inadeguata a realizzare le aspettative di felicità e
libertà che aveva acceso[6]. Ma, ancor più gravemente,
sta facendo emergere il carico di violenza che la prospettiva autoreferenziale,
insofferente ai legami, porta con sé, come i drammatici casi di cronaca sempre
più numerosi testimoniano.
Una
riflessione seria e rigorosa, che sia improntata non a una teoria
dell’equivalenza ma alla ricchezza insostituibile della differenza, è dunque
oggi quanto mai opportuna e necessaria, e da cattolici si può dare un
contributo ad un dibattito che rischia di essere monotematico. Quando, ad
esempio, attraverso una decisione politica, vengono giuridicamente equiparate
forme di vita in se stesse differenti – come la relazione tra l’uomo e la donna
e quella tra due persone dello stesso sesso – si misconosce la specificità
della famiglia e se ne preclude l’autentica valorizzazione nel contesto
sociale, trattando in modo uguale realtà diverse. Si appiattisce così il
concetto di uguaglianza, che non consiste nel dare a tutti la stessa cosa, ma
nel dare a ognuno ciò che gli è coerente: “La famiglia non può essere umiliata
e modellata da rappresentazioni similari che in modo felpato costituiscono un
‘vulnus’ progressivo alla sua specifica identità e che non sono necessarie per
tutelare diritti individuali in larga misura già garantiti dall’ordinamento”[7].
Frequentemente
ci si oppone alle ragionevoli considerazioni della Chiesa per motivi
ideologici. Nei mesi scorsi, il dibattito sulla legge contro l’omofobia ha
manifestato con chiarezza questa tendenza. Nessuno discute il crimine e l’odiosità
della violenza contro ogni persona, qualunque ne sia il motivo: tale decisa e
codificata condanna – coniugata con una costante azione educativa – dovrebbe
essere sufficiente in una società civile. In ogni caso, per lo stesso senso di
civiltà, nessuno dovrebbe discriminare, né tanto meno poter incriminare in
alcun modo, chi sostenga pubblicamente ad esempio che la famiglia è solo quella
tra un uomo e una donna[8] fondata sul matrimonio, o
che la dimensione sessuata è un fatto di natura e non di cultura.
Il secondo
processo che ha gradualmente segnata l’esperienza della famiglia è
l’oscuramento della differenza tra le generazioni e, quando in un ambiente non
vi è luce, o ci si allontana o ci si scontra. Tale messa tra parentesi oggi
porta ad una sorta di ‘segregazione generazionale’, per cui sembra che tra
adulti e giovani sia diventato impossibile parlarsi e ancora prima ascoltarsi.
Colpiti da una forma di reciproco autismo e indifferenza, diventa sempre più
difficile pensare ad un’origine comune, ciascuno tendendo a vivere il suo
segmento di presente come se fosse l’unica cosa che conta, l’unica certezza. A
questo riguardo, è stato notato che il fatto di nascere da qualcuno appare –
ancor più che la censura della morte – l’autentica rimozione della nostra epoca.
In effetti, quello che manca è la percezione di pro-venire da altro e di non
essere autosufficienti, auto-fondanti. Significativamente, nel processo di
secolarizzazione, l’essere umano pretende di trasferire su se stesso gli
attributi di Dio, dimenticando però il più importante: l’essere di Dio è
esserci per gli altri, è generare, è Amore[9].
Al tema della
generazione e dell’origine si collega strettamente quello dell’autorità. Non a
caso, la crisi di quest’ultima si è manifestata in quella ‘morte del padre’ che
ha caratterizzato, a partire dal ’68, le società occidentali, ridefinendo le
coordinate dei rapporti non solo all’interno della famiglia, ma anche della
scuola, della Chiesa, dell’intera società. Il motivo del rifiuto dell’autorità
è che essa viene sistematicamente confusa con il potere, di cui si ha una
concezione pregiudizialmente negativa come imposizione e arbitrio. In generale,
l’autorità è chiamata ad essere punto di riferimento per gli altri, deve
discernere il bene comune, decidere in modo obbligante. Nessuna autorità è per
affermare se stessa, ma sempre e solo per servire gli altri: in famiglia, in
società, nella Chiesa. Sul piano educativo, poi, chi ha autorità deve acquisire
in modo speciale quella autorevolezza che deriva dalla personale coerenza,
dall’avere qualcosa di vero e di grande da dire, dal riconoscere il proprio
ruolo, dal giocarsi in prima persona sapendo che educando gli altri educa se
stesso. Per questo è ascoltato, perché ascoltandolo ci si sente crescere.
Ci vogliono
dunque adulti che siano interiormente maturi, che non giochino con il mito
dell’eterna giovinezza; che non si pongano in patetica concorrenza con i propri
figli; che siano visibilmente lieti della loro età; consapevoli del doversi far
carico perché altri si aprano responsabilmente alla loro vita. I genitori – a
titolo specialissimo – devono accendere nei figli l’uomo spirituale e morale;
devono generare l’uomo del corpo ma anche dell’anima; devono condurre la
persona oltre se stessa per introdurla alla realtà intera, consci che – per
dirla con Romano Guardini – “l’educatore deve aver ben chiaro al riguardo che
la massima efficacia non viene da come egli parla, bensì da ciò che egli stesso
è e fa. Questo crea l’atmosfera; e il
fanciullo, che non riflette o riflette poco, è soprattutto ricettivo
all’atmosfera. Si può dire che il primo fattore è ciò che l’educatore è; il
secondo è ciò che l’educatore fa; solo il terzo, ciò che egli dice”[10].
Mi ha colpito,
nella recente GMG di Rio, l’invito ripetuto di Papa Francesco a ristabilire il
dialogo tra giovani ed anziani che, a suo dire, sono i due estremi della
società che rischiano di essere scartati. Gli anziani sono «importanti nella vita della famiglia per
comunicare quel patrimonio di umanità e di fede che è essenziale per ogni
società»[11].
Invece, non di rado sono trattati come un peso, anziché essere
considerati il più grande bagaglio di conoscenze e saggezza. Essi sono visti
non di rado come una spesa magari da contenere o ridurre con provvedimenti
disumani seppure mascherati come libertà individuale e pietà sociale. A loro
volta gli anziani, almeno quelli attivi, rischiano di assimilare una mentalità
individualistica, e faticano a fare spazio ai giovani, oppure si ripiegano
sulla dimensione privata del consumo, mentre potrebbero ancora mettere a
disposizione energie e competenze per il bene comune.
Trova
conferma, anche in questo caso, che un certo livellamento tra le generazioni è
un problema, e che – al contrario – riannodare i fili del dialogo
intergenerazionale è oggi più che mai necessario. L’io si sviluppa non nel
chiuso della propria individualità, ma quando si apre all’altro differente da
sé. E la famiglia è una preziosa custode delle differenze e della fecondità
della loro relazione, della loro alleanza. Mentre oggi, con una efficace
espressione della Ternynck, si permane negli ‘spazi incantati delle piccole
differenze’ (che in realtà sono equivalenze, e che non vincolano), la famiglia
resta lo spazio delle ‘grandi differenze’ che si completano nella reciprocità
virtuosa: differenze di età e di sesso, di cultura e di storia. Per questo la
famiglia è l’architrave portante di ogni realistico futuro![12].
Se pensiamo
alla nostra famiglia, sentiamo – in un modo o nell’altro – un’onda di calore.
Questo benefico calore cresce quanto più andiamo avanti negli anni, anche
quando i nostri genitori sono già in cielo. Forse, anche nelle nostre famiglie
ci sono state difficoltà e prove: non sempre tutto è ideale, né dei caratteri
né degli affetti. Ciò nonostante, la famiglia ha tenuto duro, ha retto alle
inevitabili usure e stanchezze, ad alti e bassi. E noi, figli di ieri e di
oggi, abbiamo intuito che su quella realtà, su quel piccolo nucleo, potevamo
contare. Sentivamo che, in mezzo alle durezze dell’esistenza, c’era una zona franca.
Sentivamo che, dentro a quel grembo, i genitori avevano fiducia in noi
nonostante i nostri limiti, errori, insuccessi o paure. Non era un nido dove
fuggire dal mondo concreto, un mondo virtuale dove ci veniva risparmiata la
parola severa, le regole. Al contrario! Era un luogo dove si faceva verità su
di noi in modo saggio, dove si dava un nome giusto alle cose, dove si imparava
la distinzione tra bene e male, tra doveri e diritti. Un luogo dove la presenza
certa del papà e della mamma, e spesso anche dei fratelli, dei nonni e degli
zii, ci dava coraggio e forza. E così, dentro a quel grembo accogliente ed
esigente, abbiamo imparato ad avere fiducia in noi stessi, negli altri, nella
vita. E la fiducia ha generato sicurezza. Abbiamo imparato a non aver paura
delle prove, dei dolori, degli insuccessi; ad affrontarli con l’aiuto di Dio e
degli altri. Quel luogo generatore – la famiglia – non era però un nucleo dai
confini cangianti e dai tempi incerti, ma definito e permanente, su cui
sapevamo di poter contare come su roccia ferma e affidabile. È questa la vera
identità e la missione della famiglia che nel nostro Paese, nonostante tutto,
rappresenta un punto di riferimento decisivo. Come sappiamo, esistono tendenze
che mirano a cambiare il volto della famiglia, rendendola un soggetto plurimo e
mobile, senza il sigillo oggettivo del matrimonio. Tra l’altro, rendendo sempre
più brevi i tempi del divorzio, lo Stato non favorisce una ulteriore
ponderazione su lacerazioni che lasceranno per sempre il segno, specie sui
figli anche adulti. Ci chiediamo: i figli non hanno forse diritto a qualunque
sacrificio pur di tenere salda e stabile la coppia e la famiglia? Indebolire la
famiglia significa indebolire la persona e la società.
3. La logica dell’architettura familiare in
relazione alla società
Una società
che non investe sulla famiglia non investe sul suo futuro e si limita, come
spesso dobbiamo costatare, ad affrontare emergenze e allocare risorse senza un
chiaro progetto. La Dottrina sociale della Chiesa da sempre afferma che la
famiglia va posta al centro delle politiche sociali, poiché rappresenta un
perno per lo sviluppo, per il suo ruolo insostituibile nel generare e nel
crescere la prole e per la partecipazione al mondo dell’economia e del lavoro:
«Nulla è davvero garantito se a perdere è la famiglia; mentre ogni altra
riforma, in modo diretto o indiretto, si avvantaggia se la famiglia prende
quota»[13]. Con il matrimonio,
infatti, nasce un nuovo soggetto, stabilmente costituito, con doveri e diritti
che lo Stato riconosce e per i quali si impegna con normative specifiche. La
ragione essenziale di tale coinvolgimento giuridico sta nel fatto che in ogni
famiglia è in causa il bene comune sul duplice versante della continuità e
della tenuta del tessuto sociale. La tenuta sociale, infatti, non dipende in
primo luogo dalle leggi, ma dalla solidità della famiglia aperta alla
trasmissione della vita e prima palestra di legami, luogo privilegiato dove si
apprendono, si sperimentano e si rigenerano. Ogni individuo – in quanto
soggetto di relazione – ha bisogno di vivere dentro ad una società solidale; ma
perché questo accada, ha necessità di mondi prossimi, di nuclei vicini e
stabili come solo la famiglia può assicurare. Senza questi mondi ravvicinati,
la società vasta e complessa lo disorienta, gli crea smarrimento e insicurezza.
Per queste ragioni lo Stato non è necessitato ad impegnarsi con ogni desiderio
individuale o relazione, ma solo con quella realtà che ha rilevanza per il
“corpo sociale” nel suo presente e nel suo futuro.
Si rende
necessaria una convinta e attiva partecipazione all’azione politica perché
trasmetta questa consapevolezza, capace di contrapporsi alla «disistima pratica
che a livello pubblico è riservata all’istituto familiare»[14]
e di sollecitare concreti interventi di sostegno. Ciò deve avvenire
innanzitutto nell’ambito dell’educazione e della crescita dei figli – che sono
un bene di tutta la società – nonché nel mondo del lavoro e sul piano delle
agevolazioni fiscali.
È, infatti,
indispensabile un fisco a misura di famiglia, basato sul quoziente familiare,
che determini un circolo virtuoso tra le famiglie e la società nel suo insieme.
Il lavoro deve essere organizzato in modo da rispettare le dinamiche
relazionali tipiche della vita familiare, senza impedire i legittimi e
necessari momenti di incontro e di riposo. Troppo spesso si esige da chi lavora
che sia data totale priorità all’attività lavorativa, fino a trascurare le
relazioni familiari. Va inoltre affrontato con efficacia il problema
dell’occupazione, in particolare per non costringere i giovani a farsi
emigranti impoverendo il Paese di giovinezza e di professionalità, o per non
rischiare, come in parte sta già avvenendo, di lasciarli inoperosi, con
conseguenze gravi sul versante sia personale che familiare e sociale.
La famiglia
non deve essere solo oggetto delle politiche sociali, che purtroppo sono ancora
insufficienti o inattuate. Essa deve farsi soggetto attivo, anche unendosi in
associazioni, che con più forza portino il loro contributo e facciano sentire
la loro voce. Il Forum delle Associazioni
Familiari rappresenta in questo senso un esempio di come le famiglie siano
più ascoltate quando portano avanti con determinazione e con un’unica voce,
importanti istanze a promozione e difesa della persona e del nucleo familiare.
La famiglia, come cellula sorgiva di relazioni, è il più efficace modello di
comunità, dove si scopre che gli altri non sono soltanto un limite alla propria
libertà, ma la condizione affinché si possa vivere liberi e felici.
La
soggettività sociale della famiglia va promossa attraverso un’autentica
sussidiarietà: le istituzioni devono dare spazio alla famiglia e alle
associazioni familiari, che meglio conoscono i problemi e sanno valutare più
correttamente, perché più da vicino, l’efficacia di certe proposte e soluzioni.
Per questo l’esperienza e l’operatività della famiglia non vanno sprecate, ma
incanalate a favore di tutto il corpo sociale. Ciò contribuisce a una maggiore
personalizzazione della società, a una più consapevole assunzione di
responsabilità delle famiglie stesse e a un alleggerimento del compito delle
istituzioni pubbliche. La sussidiarietà, in questo senso, è una medicina
salutare per tutta la società: ne facilita le dinamiche, si oppone al processo
di burocratizzazione, canalizza l’esperienza e l’intraprendenza di ognuno per
il bene comune. Tale sussidiarietà va applicata in primo luogo nei confronti
delle famiglie, che devono sempre essere e sentirsi soggetti attivi e
insostituibili.
La Chiesa
propone instancabilmente la famiglia come la “prima dimora dell’umano” così
come ricorda il Concilio Vaticano II: «il bene della
persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una
felice situazione della comunità coniugale e familiare»[15]. Per questo il futuro ha bisogno della
famiglia, perché il cammino della vita si apre solo quando si accoglie una
relazione reale, cioè concreta e quotidiana. “Accogliendo la persona
dell’altro, e specialmente quella dei figli, si accoglie l’avvenire. (…) A loro
volta i figli partiranno. Affronteranno le bufere dell’esistenza, le sue
tempeste probabilmente, ma lo faranno con tanta maggiore sicurezza se saranno
cresciuti in una casa dalle mura e dal tetto solidi, dove avranno provato il
gusto e il desiderio di edificare a loro volta”[16].
[1] C. TERNYNCK, L’uomo
di sabbia, Milano, 2013, 10.
[2] “Il primo ambito in cui la fede illumina la città
degli uomini si trova nella famiglia” (Lumen
fidei, 52).
[3] Nota CEI, Ripristino
e rinnovamento delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, 20 novembre 1988.
[4] A. Bagnasco, La
porta stretta, Siena, 2013, 74.
[5] Butler J., Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, New York , London ,
1990, 6 (trad. it. Scambi di genere: identità, sesso e desiderio, Firenze, 2004).
[6] Cfr. M. Benasayag, L’epoca
delle passioni tristi; L. Zoia, La
morte del prossimo; anche la
Prolusione del 23
gennaio 2012 dove si legge: “... si vuole rompere le reti virtuose, e ridurre
l’uomo in solitudine perché sia meglio manipolabile” (in A. Bagnasco, La porta stretta, Siena, 2013, 428).
[7] A. Bagnasco, Prolusione
all’Assemblea generale della CEI, 23 maggio 2013.
[8] Cfr. Comunicato
dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan, 15 luglio 2013.
[9] Nella Prima Enciclica di Benedetto XVI intitolata “Dio
è amore” (1Gv 4.8.16) si legge :“
(Dio) per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche
noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non
possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il
suo amore e, da questo «prima» di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche
in noi” (Deus caritas est, 17).
[10] R. Guardini, Le
età della vita, Milano, 1986, 36.
[11] Francesco, Angelus del
26 luglio 2013.
[12] C. Ternynck, L’uomo
di sabbia, Milano, 2012, 170.
[13] A. Bagnasco, La
porta stretta, Siena, 2013, 385.
[14] A. Bagnasco, La
porta stretta, Siena, 2013, 427.
[15] Concilio
Vaticano II, Gaudium et spes,
47.
[16] X. Lacroix, Di
carne e di parola, Milano, 2008, 153.
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