venerdì 13 settembre 2013

La famiglia, speranza e futuro per la società italiana "47a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani"

Campobasso 13 settembre 2013
                                                

L’architettura della famiglia: logica e ricadute sociali
Prolusione di S.Em. Card. Angelo Bagnasco 
Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana 
Torino, 12-15 settembre 2013 Giovedì 12 settembre 2013




1.    In ascolto dell’uomo e della donna di oggi
            “Da ogni parte ci esortavano a salvare il pianeta. Non si doveva, con la stessa urgenza, venire in soccorso all’umano? Se l’aria doveva restare pura, se l’erba doveva restare verde, non bisognava anche che il mondo degli umani restasse abitabile? Che cosa si faceva della terra degli uomini?”[1]. A questa domanda intende rispondere in un suo recente saggio, la psichiatra Catherine Ternynck, che guida il lettore a decifrare cosa stia accadendo alla nostra generazione, soggetta a sempre più frequenti crisi depressive e a inedite forme di disagio sociale. Si tratta del suolo umano che si è impoverito, si è svuotato del suo humus di relazioni, legami, responsabilità e così è divenuto friabile ed inconsistente. Al punto che l’uomo stesso, su questo terreno incerto, finisce per diventare ‘di sabbia’, una figura fluida, impastata di contraddizioni e con una caratteristica evidente: la sensazione di stanchezza. È un uomo ‘dalla testa pesante’ che fatica a portare avanti la sua vita, dubita del tragitto e del senso, chiedendo al contempo riconoscimento e rassicurazione. È schiacciato dall’urgenza di farsi da sé in una competizione continua, e nello stesso tempo scopre che gli manca la terra sotto i piedi. Il grande sogno dell’individualismo, che ha segnato di sé l’uomo moderno, lo ha condotto nella post-modernità ad una imbarazzante scoperta: il grande sogno non ha tenuto!

            Anche noi, in questi giorni, vorremmo insieme provare ad ascoltare l’uomo e la donna di oggi, senza pregiudizi o filtri ideologici, ma assecondando la vocazione della Chiesa che ha come suo primo compito quello di ascoltare Dio e inseparabilmente il mondo, soprattutto le sue sofferenze, disagi e fatiche, le sue paure. L’obiettivo non è di difendere una posizione, di ribadire un principio, ma di portare a credenti e non credenti il contributo di umanizzazione che la luce della fede suscita innanzitutto nell’ambito della famiglia, come ci ha ricordato di recente Papa Francesco[2]. Tra i luoghi deteriorati dall’individualismo, laddove sono custodite le fondamenta dell’umanità, c’è la famiglia, ancor prima del sociale e del politico. È diventato perfino uno slogan dire che essa è in crisi, e indicatori severi non mancano al riguardo. La famiglia tuttavia è pure l’antidoto alla stessa crisi, l’unica alternativa praticabile ad una esasperazione dell’individuo, la cui pesantezza è diventata insostenibile sotto l’imperativo di un’autonomia rivelatasi ben presto ingenua e cinica allo stesso tempo.
            Interrogandoci sulla famiglia, con l’apporto di competenze qualificate e plurali, continua e si sviluppa quella correlazione tra Vangelo e società, che nel nostro Paese vanta una esperienza più che secolare, e che oggi si apre qui a Torino con la 47ª Settimana Sociale dei Cattolici. Come rilevava la Nota CEI del 1988 infatti: “Le Settimane Sociali, (…) saranno espressione della diaconia della Chiesa italiana al Paese, che vive un complesso momento storico di trasformazione per certi versi ricco e positivo e per altri incerto e problematico. Una diaconia culturale che si eserciterà con un costruttivo senso del dialogo e del confronto nel pieno rispetto della verità e della carità cristiana”[3]. Il nostro vuol essere, dunque, un servizio al dibattito culturale in corso nel nostro Paese, e per questo un confronto serio e rigoroso, aperto al contributo di tutti gli uomini pensosi, capaci di lasciarsi interrogare dalla famiglia che non è una ‘invenzione stagionale’[4], e come tale soggetta a cicliche ridefinizioni. Senza dimenticare per altro che essa richiede di essere sempre di nuovo compresa nella sua architettura essenziale.

La riflessione che stiamo per affrontare, si snoderà attraverso un primo tornante che cerca di mettere a fuoco un elemento specifico del familiare nella relazione tra generi diversi e tra diverse generazioni, con le implicazioni che ne derivano. La roccia della differenza è fondamentale per ritessere l’umano che rischia diversamente di essere polverizzato in un indistinto egualitarismo che cancella la differenza sessuale e quella generazionale, eliminando così la possibilità di essere padre e madre, figlio e figlia. In un secondo momento si cercherà di ricavare le conseguenze che sul piano sociale ed economico debbono essere tratte al più presto, perché la famiglia non resti imbrigliata in immagini stereotipate o in utopiche fughe in avanti. In conclusione spero sarà più chiaro che la famiglia è una risorsa e non un ostacolo alla modernizzazione, anzi la speranza e, dunque, il futuro.
La domanda che resta alla fine non è quella che risuona frequentemente: “Che mondo lasceremo ai nostri figli?”; ma una più inquietante: “A quali figli lasceremo il mondo?”.

2.    La relazione tra generi diversi e tra diverse generazioni
            La differenza dei sessi e la differenza delle generazioni costituiscono la travatura di ogni essere umano, l’espressione visibile e certa del suo essere relazione, due orientamenti fondamentali che non possono essere confusi senza che ne segua una disorganizzazione globale della persona e della società. Il fatto è che, nel volgere di qualche decennio, una tale persuasione ha perso di evidenza ed è diventata un problema. Come siamo arrivati a questo punto? E soprattutto chi ha paura della differenza? Bisogna prendere coscienza di almeno due processi culturali. Il primo è il rilievo sociale della sessualità che ha prodotto paradossalmente l’eclissi dell’identità sessuata; il secondo è la caduta verticale del dialogo tra le generazioni che sembra portare al congedo dalla possibilità stessa di educare.

Quanto al primo processo, a partire dagli anni ’70 si fa strada l’idea che il sesso non sia semplicemente un dato biologico, ma che comporti una elaborazione culturale in funzione della ripartizione dei ruoli nella società di appartenenza. Questo è quanto in un primo tempo la gender theory sostiene. Infatti, a partire dalla celebre espressione di Simone de Beauvoir – “Non si nasce donna, lo si diventa” – si comincia a distinguere il sesso dal genere, come due realtà non sovrapponibili. Sulla prima, biologica, storicamente si sarebbe innestata la seconda, con una crescente valenza culturale e sociale e quindi politica. Infatti, la categoria “genere” nel tempo è venuta a significare rappresentazioni e ruoli che sono stati considerati ‘naturali’, e che invece, la critica femminista prima e la riflessione culturale dopo, ritengono sovrapposizioni per nulla naturali, ma piuttosto funzionali a posizioni di potere maschile. Basta pensare alla posizioni culturale e sociale della donna in alcune epoche o aree geografiche, dove la sua libertà, il diritto all’istruzione, il desiderio di contribuire alla vita sociale, non sono state o non sono ancora adeguatamente riconosciuti. Questo sforzo di comprensione e critica è non solo legittimo, ma anche opportuno. Semmai, oggi, bisognerebbe smascherare talune immagini di apparente liberazione della donna che, in realtà, ripropongono nuove e più sottili forme di subordinazione al riconoscimento maschile.
La messa in questione del ‘dato per scontato’ ha prodotto esiti diversi. Da una parte, in termini generali, una maggiore consapevolezza della propria sessualità, e dall’altra l’estremizzazione della propria libertà, quasi scatenando una specie di sospetto e di pregiudiziale iconoclasta verso tutto ciò che socialmente sembrava essere legato alla differenza sessuale. La categoria di “genere” divenne così sempre più autonoma rispetto alla categorie di “sesso biologico”, fino a separarsi e a contrapporsi rivendicando un’autonomia assoluta, dichiarando la fine del “dato naturale” e instaurando il primato del “culturale”, della cifra “storica”, della preferenza soggettiva, individuale. Volendo eliminare dalla dimensione sessuale le sovrastrutture socio-culturali espresse con la categoria di “genere”, si è giunti a negare anche il dato di partenza: la persona nasce sessuata. Come appare, il concetto ha così subito una radicale mutazione fino ad esprimere “l’autopercezione individuale”: come il soggetto si percepisce, egli è. Si è venuti a decostruire la dimensione sessuale fino ad adeguarla alla liquidità sociale (Z. Bauman). Dobbiamo uscire da quello che Havel efficacemente definiva ‘l’esilio del privato’, e avere l’umiltà e il coraggio di riconoscere che le nostre scelte non sono solo ‘affare nostro’, ma che contribuiscono a contenere o aggravare i problemi dell’ambiente fisico, a costruire o disgregare il mondo sociale. Restringere l’orizzonte su ciò che ci va di fare, che ci fa ‘stare bene’, senza altre considerazioni (il senso, il bene di altri, la gratitudine per ciò che si è ricevuto, le generazioni presenti e future…) significa mortificare, non liberare, la nostra umanità.
Tale capovolgimento dall’oggettivo al soggettivo, dalla natura alla cultura, non è limitato alla dimensione della sessualità, ma rientra in una visione ben più ampia che tocca la stessa visione antropologica: la persona stessa – nella sua complessità – è considerata come risultato mutevole della storia, anziché un dato oggettivo e imprescindibile da cui partire e da tenere come criterio che guida lo sviluppo personale e sociale.
In uno dei saggi che hanno fatto opinione si legge, non senza sorpresa: “Teorizzando che il genere è una costruzione sociale del tutto indipendente dal sesso, il genere stesso diventa un artificio libero da vincoli. Di conseguenza, uomo e maschile potrebbero riferirsi sia a un corpo femminile sia a uno maschile; donna e femminile, sia a un corpo maschile sia a uno femminile”[5].
Questa prospettiva fortemente reattiva alla tradizione e insofferente a qualunque vincolo per l’espansione illimitata dell’io, presenta gli stessi limiti dell’individualismo assoluto, che già da tempo si sta dimostrando una prospettiva antropologica inadeguata a realizzare le aspettative di felicità e libertà che aveva acceso[6]. Ma, ancor più gravemente, sta facendo emergere il carico di violenza che la prospettiva autoreferenziale, insofferente ai legami, porta con sé, come i drammatici casi di cronaca sempre più numerosi testimoniano.
Una riflessione seria e rigorosa, che sia improntata non a una teoria dell’equivalenza ma alla ricchezza insostituibile della differenza, è dunque oggi quanto mai opportuna e necessaria, e da cattolici si può dare un contributo ad un dibattito che rischia di essere monotematico. Quando, ad esempio, attraverso una decisione politica, vengono giuridicamente equiparate forme di vita in se stesse differenti – come la relazione tra l’uomo e la donna e quella tra due persone dello stesso sesso – si misconosce la specificità della famiglia e se ne preclude l’autentica valorizzazione nel contesto sociale, trattando in modo uguale realtà diverse. Si appiattisce così il concetto di uguaglianza, che non consiste nel dare a tutti la stessa cosa, ma nel dare a ognuno ciò che gli è coerente: “La famiglia non può essere umiliata e modellata da rappresentazioni similari che in modo felpato costituiscono un ‘vulnus’ progressivo alla sua specifica identità e che non sono necessarie per tutelare diritti individuali in larga misura già garantiti dall’ordinamento”[7].
Frequentemente ci si oppone alle ragionevoli considerazioni della Chiesa per motivi ideologici. Nei mesi scorsi, il dibattito sulla legge contro l’omofobia ha manifestato con chiarezza questa tendenza. Nessuno discute il crimine e l’odiosità della violenza contro ogni persona, qualunque ne sia il motivo: tale decisa e codificata condanna – coniugata con una costante azione educativa – dovrebbe essere sufficiente in una società civile. In ogni caso, per lo stesso senso di civiltà, nessuno dovrebbe discriminare, né tanto meno poter incriminare in alcun modo, chi sostenga pubblicamente ad esempio che la famiglia è solo quella tra un uomo e una donna[8] fondata sul matrimonio, o che la dimensione sessuata è un fatto di natura e non di cultura.

Il secondo processo che ha gradualmente segnata l’esperienza della famiglia è l’oscuramento della differenza tra le generazioni e, quando in un ambiente non vi è luce, o ci si allontana o ci si scontra. Tale messa tra parentesi oggi porta ad una sorta di ‘segregazione generazionale’, per cui sembra che tra adulti e giovani sia diventato impossibile parlarsi e ancora prima ascoltarsi. Colpiti da una forma di reciproco autismo e indifferenza, diventa sempre più difficile pensare ad un’origine comune, ciascuno tendendo a vivere il suo segmento di presente come se fosse l’unica cosa che conta, l’unica certezza. A questo riguardo, è stato notato che il fatto di nascere da qualcuno appare – ancor più che la censura della morte – l’autentica rimozione della nostra epoca. In effetti, quello che manca è la percezione di pro-venire da altro e di non essere autosufficienti, auto-fondanti. Significativamente, nel processo di secolarizzazione, l’essere umano pretende di trasferire su se stesso gli attributi di Dio, dimenticando però il più importante: l’essere di Dio è esserci per gli altri, è generare, è Amore[9].
Al tema della generazione e dell’origine si collega strettamente quello dell’autorità. Non a caso, la crisi di quest’ultima si è manifestata in quella ‘morte del padre’ che ha caratterizzato, a partire dal ’68, le società occidentali, ridefinendo le coordinate dei rapporti non solo all’interno della famiglia, ma anche della scuola, della Chiesa, dell’intera società. Il motivo del rifiuto dell’autorità è che essa viene sistematicamente confusa con il potere, di cui si ha una concezione pregiudizialmente negativa come imposizione e arbitrio. In generale, l’autorità è chiamata ad essere punto di riferimento per gli altri, deve discernere il bene comune, decidere in modo obbligante. Nessuna autorità è per affermare se stessa, ma sempre e solo per servire gli altri: in famiglia, in società, nella Chiesa. Sul piano educativo, poi, chi ha autorità deve acquisire in modo speciale quella autorevolezza che deriva dalla personale coerenza, dall’avere qualcosa di vero e di grande da dire, dal riconoscere il proprio ruolo, dal giocarsi in prima persona sapendo che educando gli altri educa se stesso. Per questo è ascoltato, perché ascoltandolo ci si sente crescere.
Ci vogliono dunque adulti che siano interiormente maturi, che non giochino con il mito dell’eterna giovinezza; che non si pongano in patetica concorrenza con i propri figli; che siano visibilmente lieti della loro età; consapevoli del doversi far carico perché altri si aprano responsabilmente alla loro vita. I genitori – a titolo specialissimo – devono accendere nei figli l’uomo spirituale e morale; devono generare l’uomo del corpo ma anche dell’anima; devono condurre la persona oltre se stessa per introdurla alla realtà intera, consci che – per dirla con Romano Guardini – “l’educatore deve aver ben chiaro al riguardo che la massima efficacia non viene da come egli parla, bensì da ciò che egli stesso è e fa. Questo crea l’atmosfera; e il fanciullo, che non riflette o riflette poco, è soprattutto ricettivo all’atmosfera. Si può dire che il primo fattore è ciò che l’educatore è; il secondo è ciò che l’educatore fa; solo il terzo, ciò che egli dice”[10].
Mi ha colpito, nella recente GMG di Rio, l’invito ripetuto di Papa Francesco a ristabilire il dialogo tra giovani ed anziani che, a suo dire, sono i due estremi della società che rischiano di essere scartati. Gli anziani sono «importanti nella vita della famiglia per comunicare quel patrimonio di umanità e di fede che è essenziale per ogni società»[11]. Invece, non di rado sono trattati come un peso, anziché essere considerati il più grande bagaglio di conoscenze e saggezza. Essi sono visti non di rado come una spesa magari da contenere o ridurre con provvedimenti disumani seppure mascherati come libertà individuale e pietà sociale. A loro volta gli anziani, almeno quelli attivi, rischiano di assimilare una mentalità individualistica, e faticano a fare spazio ai giovani, oppure si ripiegano sulla dimensione privata del consumo, mentre potrebbero ancora mettere a disposizione energie e competenze per il bene comune.
Trova conferma, anche in questo caso, che un certo livellamento tra le generazioni è un problema, e che – al contrario – riannodare i fili del dialogo intergenerazionale è oggi più che mai necessario. L’io si sviluppa non nel chiuso della propria individualità, ma quando si apre all’altro differente da sé. E la famiglia è una preziosa custode delle differenze e della fecondità della loro relazione, della loro alleanza. Mentre oggi, con una efficace espressione della Ternynck, si permane negli ‘spazi incantati delle piccole differenze’ (che in realtà sono equivalenze, e che non vincolano), la famiglia resta lo spazio delle ‘grandi differenze’ che si completano nella reciprocità virtuosa: differenze di età e di sesso, di cultura e di storia. Per questo la famiglia è l’architrave portante di ogni realistico futuro![12].
Se pensiamo alla nostra famiglia, sentiamo – in un modo o nell’altro – un’onda di calore. Questo benefico calore cresce quanto più andiamo avanti negli anni, anche quando i nostri genitori sono già in cielo. Forse, anche nelle nostre famiglie ci sono state difficoltà e prove: non sempre tutto è ideale, né dei caratteri né degli affetti. Ciò nonostante, la famiglia ha tenuto duro, ha retto alle inevitabili usure e stanchezze, ad alti e bassi. E noi, figli di ieri e di oggi, abbiamo intuito che su quella realtà, su quel piccolo nucleo, potevamo contare. Sentivamo che, in mezzo alle durezze dell’esistenza, c’era una zona franca. Sentivamo che, dentro a quel grembo, i genitori avevano fiducia in noi nonostante i nostri limiti, errori, insuccessi o paure. Non era un nido dove fuggire dal mondo concreto, un mondo virtuale dove ci veniva risparmiata la parola severa, le regole. Al contrario! Era un luogo dove si faceva verità su di noi in modo saggio, dove si dava un nome giusto alle cose, dove si imparava la distinzione tra bene e male, tra doveri e diritti. Un luogo dove la presenza certa del papà e della mamma, e spesso anche dei fratelli, dei nonni e degli zii, ci dava coraggio e forza. E così, dentro a quel grembo accogliente ed esigente, abbiamo imparato ad avere fiducia in noi stessi, negli altri, nella vita. E la fiducia ha generato sicurezza. Abbiamo imparato a non aver paura delle prove, dei dolori, degli insuccessi; ad affrontarli con l’aiuto di Dio e degli altri. Quel luogo generatore – la famiglia – non era però un nucleo dai confini cangianti e dai tempi incerti, ma definito e permanente, su cui sapevamo di poter contare come su roccia ferma e affidabile. È questa la vera identità e la missione della famiglia che nel nostro Paese, nonostante tutto, rappresenta un punto di riferimento decisivo. Come sappiamo, esistono tendenze che mirano a cambiare il volto della famiglia, rendendola un soggetto plurimo e mobile, senza il sigillo oggettivo del matrimonio. Tra l’altro, rendendo sempre più brevi i tempi del divorzio, lo Stato non favorisce una ulteriore ponderazione su lacerazioni che lasceranno per sempre il segno, specie sui figli anche adulti. Ci chiediamo: i figli non hanno forse diritto a qualunque sacrificio pur di tenere salda e stabile la coppia e la famiglia? Indebolire la famiglia significa indebolire la persona e la società.

3.    La logica dell’architettura familiare in relazione alla società
Una società che non investe sulla famiglia non investe sul suo futuro e si limita, come spesso dobbiamo costatare, ad affrontare emergenze e allocare risorse senza un chiaro progetto. La Dottrina sociale della Chiesa da sempre afferma che la famiglia va posta al centro delle politiche sociali, poiché rappresenta un perno per lo sviluppo, per il suo ruolo insostituibile nel generare e nel crescere la prole e per la partecipazione al mondo dell’economia e del lavoro: «Nulla è davvero garantito se a perdere è la famiglia; mentre ogni altra riforma, in modo diretto o indiretto, si avvantaggia se la famiglia prende quota»[13]. Con il matrimonio, infatti, nasce un nuovo soggetto, stabilmente costituito, con doveri e diritti che lo Stato riconosce e per i quali si impegna con normative specifiche. La ragione essenziale di tale coinvolgimento giuridico sta nel fatto che in ogni famiglia è in causa il bene comune sul duplice versante della continuità e della tenuta del tessuto sociale. La tenuta sociale, infatti, non dipende in primo luogo dalle leggi, ma dalla solidità della famiglia aperta alla trasmissione della vita e prima palestra di legami, luogo privilegiato dove si apprendono, si sperimentano e si rigenerano. Ogni individuo – in quanto soggetto di relazione – ha bisogno di vivere dentro ad una società solidale; ma perché questo accada, ha necessità di mondi prossimi, di nuclei vicini e stabili come solo la famiglia può assicurare. Senza questi mondi ravvicinati, la società vasta e complessa lo disorienta, gli crea smarrimento e insicurezza. Per queste ragioni lo Stato non è necessitato ad impegnarsi con ogni desiderio individuale o relazione, ma solo con quella realtà che ha rilevanza per il “corpo sociale” nel suo presente e nel suo futuro.
Si rende necessaria una convinta e attiva partecipazione all’azione politica perché trasmetta questa consapevolezza, capace di contrapporsi alla «disistima pratica che a livello pubblico è riservata all’istituto familiare»[14] e di sollecitare concreti interventi di sostegno. Ciò deve avvenire innanzitutto nell’ambito dell’educazione e della crescita dei figli – che sono un bene di tutta la società – nonché nel mondo del lavoro e sul piano delle agevolazioni fiscali.
È, infatti, indispensabile un fisco a misura di famiglia, basato sul quoziente familiare, che determini un circolo virtuoso tra le famiglie e la società nel suo insieme. Il lavoro deve essere organizzato in modo da rispettare le dinamiche relazionali tipiche della vita familiare, senza impedire i legittimi e necessari momenti di incontro e di riposo. Troppo spesso si esige da chi lavora che sia data totale priorità all’attività lavorativa, fino a trascurare le relazioni familiari. Va inoltre affrontato con efficacia il problema dell’occupazione, in particolare per non costringere i giovani a farsi emigranti impoverendo il Paese di giovinezza e di professionalità, o per non rischiare, come in parte sta già avvenendo, di lasciarli inoperosi, con conseguenze gravi sul versante sia personale che familiare e sociale.
La famiglia non deve essere solo oggetto delle politiche sociali, che purtroppo sono ancora insufficienti o inattuate. Essa deve farsi soggetto attivo, anche unendosi in associazioni, che con più forza portino il loro contributo e facciano sentire la loro voce. Il Forum delle Associazioni Familiari rappresenta in questo senso un esempio di come le famiglie siano più ascoltate quando portano avanti con determinazione e con un’unica voce, importanti istanze a promozione e difesa della persona e del nucleo familiare. La famiglia, come cellula sorgiva di relazioni, è il più efficace modello di comunità, dove si scopre che gli altri non sono soltanto un limite alla propria libertà, ma la condizione affinché si possa vivere liberi e felici.
La soggettività sociale della famiglia va promossa attraverso un’autentica sussidiarietà: le istituzioni devono dare spazio alla famiglia e alle associazioni familiari, che meglio conoscono i problemi e sanno valutare più correttamente, perché più da vicino, l’efficacia di certe proposte e soluzioni. Per questo l’esperienza e l’operatività della famiglia non vanno sprecate, ma incanalate a favore di tutto il corpo sociale. Ciò contribuisce a una maggiore personalizzazione della società, a una più consapevole assunzione di responsabilità delle famiglie stesse e a un alleggerimento del compito delle istituzioni pubbliche. La sussidiarietà, in questo senso, è una medicina salutare per tutta la società: ne facilita le dinamiche, si oppone al processo di burocratizzazione, canalizza l’esperienza e l’intraprendenza di ognuno per il bene comune. Tale sussidiarietà va applicata in primo luogo nei confronti delle famiglie, che devono sempre essere e sentirsi soggetti attivi e insostituibili.
La Chiesa, ben consapevole del ruolo fondamentale che la famiglia svolge nella società e nella Chiesa stessa, le si affianca nel suo cammino affascinante ma anche esigente. Per questo la Commissione Episcopale per la Famiglia ha pubblicato lo scorso anno gli Orientamenti sulla preparazione al matrimonio, che richiamano a tutta la comunità ecclesiale l’importanza di accompagnare i fidanzati nella loro preparazione alle nozze e nei primi anni della vita di famiglia. A loro si deve un’attenta cura, per aiutarli a scoprire il valore della loro scelta e ad assumersi con consapevolezza il vicendevole impegno per la vita. Purtroppo, alcuni fanno esperienza della lacerazione della vita matrimoniale: allora restano ferite gravi e dolori che lasciano il segno in tutti, in special modo nei figli. In questa significativa sede, rinnoviamo stima e vicinanza a quanti vivono in prima persona queste traumatiche lacerazioni e per le conseguenze che ne derivano. Ad essi vanno riservati una cordiale attenzione e un particolare accompagnamento, perché si sentano sempre parte attiva della comunità cristiana e ne sperimentino il sincero affetto.
La Chiesa propone instancabilmente la famiglia come la “prima dimora dell’umano” così come ricorda il Concilio Vaticano II: «il bene della persona e della società umana e cristiana è strettamente connesso con una felice situazione della comunità coniugale e familiare»[15]. Per questo il futuro ha bisogno della famiglia, perché il cammino della vita si apre solo quando si accoglie una relazione reale, cioè concreta e quotidiana. “Accogliendo la persona dell’altro, e specialmente quella dei figli, si accoglie l’avvenire. (…) A loro volta i figli partiranno. Affronteranno le bufere dell’esistenza, le sue tempeste probabilmente, ma lo faranno con tanta maggiore sicurezza se saranno cresciuti in una casa dalle mura e dal tetto solidi, dove avranno provato il gusto e il desiderio di edificare a loro volta”[16].




[1] C. TERNYNCK, L’uomo di sabbia, Milano, 2013, 10.
[2] “Il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia” (Lumen fidei, 52).
[3] Nota CEI, Ripristino e rinnovamento delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, 20 novembre 1988.
[4] A. Bagnasco, La porta stretta, Siena, 2013, 74.
[5] Butler J., Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, New York, London, 1990, 6 (trad. it. Scambi di genere: identità, sesso e desiderio, Firenze, 2004).
[6] Cfr. M. Benasayag, L’epoca delle passioni tristi; L. Zoia, La morte del prossimo; anche la Prolusione del 23 gennaio 2012 dove si legge: “... si vuole rompere le reti virtuose, e ridurre l’uomo in solitudine perché sia meglio manipolabile” (in A. Bagnasco, La porta stretta, Siena, 2013, 428).
[7] A. Bagnasco, Prolusione all’Assemblea generale della CEI, 23 maggio 2013.
[8] Cfr. Comunicato dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan, 15 luglio 2013.
[9] Nella Prima Enciclica di Benedetto XVI intitolata “Dio è amore” (1Gv 4.8.16) si legge :“ (Dio) per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo «prima» di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi” (Deus caritas est, 17).
[10] R. Guardini, Le età della vita, Milano, 1986, 36.
[11] Francesco, Angelus del 26 luglio 2013.
[12] C. Ternynck, L’uomo di sabbia, Milano, 2012, 170.
[13] A. Bagnasco, La porta stretta, Siena, 2013, 385.
[14] A. Bagnasco, La porta stretta, Siena, 2013, 427.
[15] Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 47.
[16] X. Lacroix, Di carne e di parola, Milano, 2008, 153.

Nessun commento:

Posta un commento