Uno storytelling ancora da
scrivere.
Da IL BENE COMUNE
di Antonio Ruggieri
Il Centro Studi Molisano, un sodalizio campobassano che raccoglie cittadini appassionati al destino della loro comunità, che vuole operare per restaurare il senso e la cultura dello Spirito Pubblico che fra il Trigno e il Fortore (forse più che altrove) s’è smarrito da tempo, venerdì 14 dicembre ha invitato Domenico Iannacone, per consegnargli il “premio San Giorgio” che l’associazione attribuisce ogni anno a una personalità distintasi per la sua opera in favore della nostra regione.Per una sorta di “strategia fatale” avrebbe detto il compianto Baudrillard, la cerimonia s’è svolta nella sala consiliare del Municipio, nel cuore della città e nell’ambito dell’esercizio più significativo della sua rappresentanza.
Fino alla fine gli accorti organizzatori, presagendo un afflusso di pubblico soverchiante per la capienza limitata della sala comunale, hanno avuto in serbo la soluzione di spostare l’iniziativa alla sala dell’ex Gil grande il doppio, ma poi hanno giustamente valutato che un evento di quel tenore dovesse aver luogo dove la nostra comunità si riunisce, confligge, approfondisce e decide, proprio com’è scritto che debba fare nella Carta Costituzionale.
E’ stata una serata importante, che Domenico Iannacone ha saputo caricare di significati e prospettive affatto scontate alla vigilia.
Moderatore degli interventi e pronunciatore di una laudatio in favore dell’autore de “I dieci comandamenti” è stato Giuseppe Iacobacci che, insieme a suo fratello Mauro, è uno dei soci maggiormente attivi del Centro Studi Molisano, oltre ad essere amico di Iannacone fin dai tempi delle scuole medie.
Per il Centro Studi Molisano è intervenuto il presidente Giuseppe Reale, che ha sottolineato come sia indispensabile, nell’epoca equivoca e “disintermediata” che stiamo vivendo, il ruolo di chi si sforza, con responsabilità deontologica, di cercare la verità, di dire – naturalmente dal suo punto di vista – come stanno le cose.
Ha utilizzato il mito della caverna dal settimo libro della Repubblica di Platone, per dire come sia indispensabile, oggi che viviamo in un tempo di bulimia informativa, il compito di chi si libera dai lacci che lo tengono rivolto sul fondo della grotta a guardare le ombre che vi sfilano, che esce alla luce del sole per rendersi conto della realtà effettiva e che torna nella caverna per liberare gli altri uomini, accompagnandoli in un cammino di coscienza e conoscenza.
I saluti istituzionali sono stati affidati al sindaco di Campobasso Antonio Battista e al presidente del Consiglio comunale Michele Durante il quale, con un intervento appassionato da punti di vista differenti, ha fornito, quasi schermendosi, una chiave interpretativa del lavoro di Iannacone che ha attraversato il tempo rimanente della vibrante serata come un fiume carsico: “per me è letteratura” ha detto Durante riferendosi ai “Dieci comandamenti”.
E in definitiva, quando è toccato a lui prendere la parola,Iannacone ha esordito richiamando la sua formazione in ambiti letterari, piuttosto che giornalistici: Amelia Rosselli, Giorgio Caproni, e poi Attilio Bertolucci e infine Mario Luzi, con cui ha avuto una intensa frequentazione, che gli ha insegnato la densità e lo spessore, la leggerezza e l’evanescenza, l’altezza e la profondità, la verità e la menzogna della parola, di questo attrezzo fondamentale della nostra civiltà, della quale una comunicazione d’infimo profilo ha fatto strame.
ha rivendicato la forza e la necessità del racconto, di un racconto sovversivo che trama (proprio in senso tecnico) mentre conosce situazioni e imbastisce relazioni; che esige la responsabilità, la faccia del suo locutore; che scandaglia quello che rimane fuori dalla narrazione meanstream del mondo caotico e infelice che ci ammanniscono e ce lo ripropone, a noi, alla coscienza di ognuno di noi, come un’altra possibilità – forse quella definitiva – per restare umani, come ci ha disperatamente chiesto di fare Vittorio Arrigoni prima di lasciarci.
E’ letteratura; un altro genere rispetto al giornalismo che pure ha rappresentato per Iannacone l’orizzonte per lavorare alla sua poetica.
Ha citato Pasolini e i suoi “Comizi d’amore”, il cinema di Comencini, ma ci starebbero anche Mario Soldati e poi Guido Piovene che dal ‘53 al ‘56, per la Rai, ha girato un Viaggio in Italia che lo ha portato pure nel nostro Molise.
Nel tempo, ma ne “I dieci comandamenti” ormai in maniera distillata, Iannacone ha messo a punto un suo stile narrativo che piega la televisione a farle raccontare la letteratura civile della quale abbiamo bisogno.
L’altra sera a Campobasso, tenendo sulla corda una platea nutritissima addirittura in piedi e seduta in terra per quasi un’ora e mezza, ha parlato delle pause, dei silenzi che amministra nel dispiegamento di un’avventura interlocutoria guidata innanzitutto dal rispetto per l’interlocutore.
Il silenzio ispessisce le parole dette, meglio se meditate prima di essere pronunciate, restituisce la responsabilità allo spettatore, seduto nel chiuso protetto della sua casa, di confrontarsi con un’umanità dolente, troppo spesso nascosta nelle pieghe della sua vita.
Fa un uso sapiente, cinematografico, del controcampo Iannacone; viene inquadrato mentre ascolta il protagonista del suo racconto con un’espressione intensa, che tradisce interesse e condivisione sincera; con le rughe sulla fronte aggrottate, magnificamente valorizzate da una calvizie che ormai può essere considerata una sagace scelta performativa.
fa letteratura civile dando senso e significato al servizio pubblico che la televisione dovrebbe svolgere.
Il critico letterario Gian Paolo Serino, sul sito internet di Nicola Porro, ha di recente dichiarato che il nostro conterraneo, con i suoi “Dicei comandamenti” ha scritto il miglior romanzo degli ultimi venti anni e che per questo meriterebbe il Premio Strega.
Alla fine della magnifica e civilissima serata campobassana, Iannacone ha fatto allusioni a contrasti e condizionamenti che la struttura di produzione Rai non manca di esercitare, nel tentativo di imbrigliare o addirittura di censurare pateticamente il suo lavoro.
Egli non ha escluso di concludere la sua carriera in televisione e d’intraprendere la strada del teatro civile, quella che con facondia, da tempo, esercitano Ascanio Celestini e Marco Paolini, segnata profondamente nel nostro Paese dall’opera di Luporini e Gaber, finché è stato vivo.
Ha chiuso però Domenico Iannacone, la memorabile serata di venerdì 14 dicembre 2018 nella sala consiliare del palazzo di città, a Campobasso, con un riferimento al Molise e a quello che si potrebbe fare per sollevarlo dalla marginalità che patisce.
“Il Molise non esiste”, ha detto per qualche tempo la rete dileggiandoci blandamente; i più accaniti fra i nostri corregionali, con anelito partigiano, hanno risposto che invece “il Molise resiste”, dando vita ad un contrappunto di quart’ordine e da social network.
La verità è che il Molise purtroppo esiste e non resiste affatto.
E’ una regione in mezzo al guado, al margine di uno sottosviluppo assistito che ha foraggiato la sua modernizzazione di media incidenza e che adesso, quando sono venute meno le risorse provenienti dai centri di spesa extraregionali, vive una condizione di defuturizzazione alla quale l’intera sua classe dirigente non riesce a dare risposta.
Prima di ogni altra cosa, noi abbiamo bisogno del racconto, dello storytelling per il nostro futuro; di saper riconoscere le nostre vocazioni maggiormente conclamate, quelle territoriali ma anche (forse soprattutto) quelle antropologiche e d’impalcare su di esse la prospettiva della nostra piccola comunità minacciata su più fronti.
Dobbiamo diventare una comunità competente capace d’inaugurare il laboratorio possibile del Molise futuro prossimo; Domenico Iannacone, con sintesi efficace, ha detto che potremmo ripensare la nostra condizione e trasformarla in un vantaggio paradossale per fare quello che altrove è assai più difficile realizzare.
Il Molise potrebbe diventare una regione/laboratorio basata su un’economia solidale e mutualistica, accogliente e multiculturale, che tutela l’autenticità delle sue tradizioni ma aperta all’innovazione, dove si vive ottemperando ai diritti e la pratica dei doveri diventa un viatico per l’affermazione di una nuova responsabilità, individuale e comunitaria.
Insomma, potremmo provare a vivere “semplicemente felici” come Iannacone ci ha consigliato di provare a fare, mentre tutti lo hanno applaudito con un tuffo al cuore e un groppo alla gola.
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